Prima c’erano i campi.
Prima, oltre all’acqua, alle velme, c’erano l’erba e i campi e anche noi a far da padrone. Accanto alle vigne, al frumento e all’orzo.
Ci strappavano via. Ma non troppo. Perché sapevano che in tempo di carestia noi, alla bisogna, andavamo bene, crude o cotte in zuppe, frittate, pane.
E poi gli animali dovevano pur brucare.
Fino a quando il grano non giunse dalla Pannonia per nutrire la grande città, in giugno i campi erano gialli di spighe e nelle crepe della terra noi dimoravamo a nostro agio e riempivamo le mense più povere.
Prima del selciato c’eravamo noi
e abbiamo accompagnato lo scorrere dei secoli.
Non tutte le stesse.
Qualcuna si accomodò da fuori, come l’amaranto i cui semi si intrufolarono nelle navi di ritorno dal Nuovo Mondo, dove erano gradito cibo degli Aztechi e dei Maya.
Qualcuna altra venne portata dal mare, dal vento, attaccata agli scafi dei velieri, come succede ancora oggi agli uomini, e qui trovò posto o se lo conquistò.
L’accolse una babele di lingue, tante erano le terre da cui giunse la gente che approdò in laguna.
Prima c’eravamo noi e siamo sempre rimaste, anche se ridotte, sradicate, estirpate come gli abitanti di queste isole di pietra finemente lavorata.
Appena c’è distrazione cerchiamo di riconquistare terreno, quello che ci è stato tolto.
Nei margini della città ignorati dall’orda del turismo, prendiamo posto, occupiamo spazi, ci allarghiamo. Dove i passi non sono concitati, dove il frastuono dei trolley non si fa sentire,
ci ergiamo anche solitarie.
Vorremmo rivestire i campi come un tempo, ricordare l’anima verde della laguna di pietra.
Chiediamo alle mosche di fare il lavoro delle api, così rare in questo habitat.
Sussurriamo loro: sporcatevi le ali dei nostri semi, sbattetele dovunque, così da farci attecchire, in barba agli estirpatori.
Cominciamo in sordina, quando la primavera intiepidisce l’aria, spuntiamo dal nulla e gettiamo semi più in là.
Avanziamo dapprima in schiere minuscole e con percorsi immaginari,
poi, specie d’estate,
ci prende una smania irrefrenabile di ricoprire i masègni, di cancellare la traccia dell’uomo.
A darci man forte ci si mette sovente il trifoglio che non ha paura di nulla.
Altre volte, più guardinghe, mandiamo in perlustrazione la parietaria. Lei si accontenta di poco.
Si arrampica sui muri, striscia sulle grondaie ma in verità nasconde una grande ambizione,
vuole stupire e cerca un palcoscenico su cui esibirsi.
La paciosa portulaca preferisce invece stare più appartata, si distende sotto il sole più bruciante, si aggrappa ai gradini dei ponti e osserva benevola chi passa,
mentre il finocchio marino se lasciato indisturbato in quattro e quattr’otto riveste le rive lungo i canali,
le tappezza di allegre infiorescenze e
conversa amabilmente con le barche.
Siamo di tante sorte diverse e tutte per lo più appetitose, anche se gli umani ormai ci snobbano;
sappiamo di buono come il farinello che ha il gusto dello spinacio o come le tante famiglie di cicoria, tarassaco o di gramigna, dalle foglie sapide e amare appena un po’, quanto basta.
O possediamo proprietà medicinali come la lingua di vacca che spunta a fitti cespi.
Ci rivestiamo di spighe, steli, foglie lunghe o rotonde, pelose, seghettate o lisce,
azzardiamo fiori imprevisti, che nessuno nota ma noi li regaliamo con generosa benevolenza.
Cresciamo per dispetto, negli anfratti, tra le fessure dei mattoni, scaliamo i muri,
ci arrampichiamo sui ponti,
se necessario, ci allunghiamo in diagonale e attecchiamo di sbieco.
E benediciamo la pioggia quando giunge a dissetarci e a mondarci dalla polvere.
Qualcuna di noi sogna d’essere albero, di ergersi verticale e offrire ombra alla città assolata.
E così, se indisturbata, cresce a dismisura.
Durante il giorno accompagniamo i passi di chi entra in chiesa,
sorvegliamo dai ponti il passaggio delle barche
e spiamo la vita altrui dai gradini di pietra d’Istria.
La bellezza di questa città ci contagia e sogniamo di poter far parte del suo caleidoscopio di immagini:
suggeriamo un Mondrian nelle calli nascoste,
creiamo composizioni intonate alle sbrecciature del muro,
o, sfacciate, ci mettiamo in competizione con i ferri delle gondole.
Facciamo risaltare la lucentezza della pietra d’Istria, il rosso del mattone
e accentuiamo le striature e le rugosità di ogni pietra.
Nulla ci è estraneo dei segni della città, neppure quelli che appartengono al grido della modernità
e così ci accostiamo con sfida ai graffiti dei giovani
perché le nostre tinte vegetali sono tavolozze d’artista.
Ma soprattutto ci sforziamo di rimediare all’incuria e al disamore che regnano dovunque:
ripariamo i masègni maltrattati, scheggiati, spezzati dall’imperizia dei lavori,
chiudiamo e rappezziamo le loro buche,
nascondiamo i cavi passanti,
regaliamo grazia a tubi e condutture,
occultiamo rifiuti.
Le nostre sono vite clandestine e ignorate; noi siamo estranei gentili, presenze superflue, parenti poveri come ormai gli abitanti della città di pietra.
Le nostre sono tuttavia fibre docili all’apparenza ma indomite e tenaci, dense di clorofilla, gonfie di linfa vitale.
Ciascuna di noi sceglie un proprio posto, chi sotto al sole cocente, chi al riparo dai suoi raggi,
qualcuna ama la solitudine
ma per lo più non disdegniamo la compagnia e sovente ci mescoliamo con gusto
e se c’è qualcuna che fa la voce grossa, sappiamo tenerla a bada.
La nostra vita è breve? Oh sì.
Sappiamo che alla fine dell’estate passeranno gli sradicatori, bruceranno con le fiamme le nostre radici, inseguiranno racemi, foglie, infiorescenze e steli.
Forse nessuno si accorgerà della nostra sparizione,
forse non lasceremo alle spalle della nostalgia.
La città sarà più bianca e senza il guizzo dei nostri colori.
Ma ci ripresenteremo puntualmente l’anno a venire e così lo sforzo di estirparci sarà stato inutile
perché i nostri semi sono conficcati nelle fessure delle pietre e dei masègni,
penetrati negli anfratti delle murature e dei ponti
e come il caranto, che ha saldato la foresta di pali sott’acqua, noi abbiamo intrecciato una rete sotterranea che stringe e rende compatta la città.
Noi resistiamo.
Resistiamo come i cittadini di questa città e vorremmo condividerne i sogni. Offriamo a loro vite di risulta, frammenti di bellezza, stupori vegetali.
Dal basso, lì dove siamo, infondiamo a chi ci presta attenzione il coraggio e la speranza per credere a una Venezia non solo di pietra, di sguardi voraci e frettolosi ma un luogo per vivere, sostare, crescere e forse divenire un giorno alberi.
Prima c’erano i campi.
Prima, oltre all’acqua, alle velme, c’erano l’erba e i campi e anche noi a far da padrone. Accanto alle vigne, al frumento e all’orzo.
Ci strappavano via. Ma non troppo. Perché sapevano che in tempo di carestia noi, alla bisogna, andavamo bene, crude o cotte in zuppe, frittate, pane.
E poi gli animali dovevano pur brucare.
Fino a quando il grano non giunse dalla Pannonia per nutrire la grande città, in giugno i campi erano gialli di spighe e nelle crepe della terra noi dimoravamo a nostro agio e riempivamo le mense più povere.
Prima del selciato c’eravamo noi
e abbiamo accompagnato lo scorrere dei secoli.
Non tutte le stesse.
Qualcuna si accomodò da fuori, come l’amaranto i cui semi si intrufolarono nelle navi di ritorno dal Nuovo Mondo, dove erano gradito cibo degli Aztechi e dei Maya.
Qualcuna altra venne portata dal mare, dal vento, attaccata agli scafi dei velieri, come succede ancora oggi agli uomini, e qui trovò posto o se lo conquistò.
L’accolse una babele di lingue, tante erano le terre da cui giunse la gente che approdò in laguna.
Prima c’eravamo noi e siamo sempre rimaste, anche se ridotte, sradicate, estirpate come gli abitanti di queste isole di pietra finemente lavorata.
Appena c’è distrazione cerchiamo di riconquistare terreno, quello che ci è stato tolto.
Nei margini della città ignorati dall’orda del turismo, prendiamo posto, occupiamo spazi, ci allarghiamo. Dove i passi non sono concitati, dove il frastuono dei trolley non si fa sentire,
ci ergiamo anche solitarie.
Vorremmo rivestire i campi come un tempo, ricordare l’anima verde della laguna di pietra.
Chiediamo alle mosche di fare il lavoro delle api, così rare in questo habitat.
Sussurriamo loro: sporcatevi le ali dei nostri semi, sbattetele dovunque, così da farci attecchire, in barba agli estirpatori.
Cominciamo in sordina, quando la primavera intiepidisce l’aria, spuntiamo dal nulla e gettiamo semi più in là.
Avanziamo dapprima in schiere minuscole e con percorsi immaginari,
poi, specie d’estate,
ci prende una smania irrefrenabile di ricoprire i masègni, di cancellare la traccia dell’uomo.
A darci man forte ci si mette sovente il trifoglio che non ha paura di nulla.
Altre volte, più guardinghe, mandiamo in perlustrazione la parietaria. Lei si accontenta di poco.
Si arrampica sui muri, striscia sulle grondaie ma in verità nasconde una grande ambizione,
vuole stupire e cerca un palcoscenico su cui esibirsi.
La paciosa portulaca preferisce invece stare più appartata, si distende sotto il sole più bruciante, si aggrappa ai gradini dei ponti e osserva benevola chi passa,
mentre il finocchio marino se lasciato indisturbato in quattro e quattr’otto riveste le rive lungo i canali,
le tappezza di allegre infiorescenze e
conversa amabilmente con le barche.
Siamo di tante sorte diverse e tutte per lo più appetitose, anche se gli umani ormai ci snobbano;
sappiamo di buono come il farinello che ha il gusto dello spinacio o come le tante famiglie di cicoria, tarassaco o di gramigna, dalle foglie sapide e amare appena un po’, quanto basta.
O possediamo proprietà medicinali come la lingua di vacca che spunta a fitti cespi.
Ci rivestiamo di spighe, steli, foglie lunghe o rotonde, pelose, seghettate o lisce,
azzardiamo fiori imprevisti, che nessuno nota ma noi li regaliamo con generosa benevolenza.
Cresciamo per dispetto, negli anfratti, tra le fessure dei mattoni, scaliamo i muri,
ci arrampichiamo sui ponti,
se necessario, ci allunghiamo in diagonale e attecchiamo di sbieco.
E benediciamo la pioggia quando giunge a dissetarci e a mondarci dalla polvere.
Qualcuna di noi sogna d’essere albero, di ergersi verticale e offrire ombra alla città assolata.
E così, se indisturbata, cresce a dismisura.
Durante il giorno accompagniamo i passi di chi entra in chiesa,
sorvegliamo dai ponti il passaggio delle barche
e spiamo la vita altrui dai gradini di pietra d’Istria.
La bellezza di questa città ci contagia e sogniamo di poter far parte del suo caleidoscopio di immagini:
suggeriamo un Mondrian nelle calli nascoste,
creiamo composizioni intonate alle sbrecciature del muro,
o, sfacciate, ci mettiamo in competizione con i ferri delle gondole.
Facciamo risaltare la lucentezza della pietra d’Istria, il rosso del mattone
e accentuiamo le striature e le rugosità di ogni pietra.
Nulla ci è estraneo dei segni della città, neppure quelli che appartengono al grido della modernità
e così ci accostiamo con sfida ai graffiti dei giovani
perché le nostre tinte vegetali sono tavolozze d’artista.
Ma soprattutto ci sforziamo di rimediare all’incuria e al disamore che regnano dovunque:
ripariamo i masègni maltrattati, scheggiati, spezzati dall’imperizia dei lavori,
chiudiamo e rappezziamo le loro buche,
nascondiamo i cavi passanti,
regaliamo grazia a tubi e condutture,
occultiamo rifiuti.
Le nostre sono vite clandestine e ignorate; noi siamo estranei gentili, presenze superflue, parenti poveri come ormai gli abitanti della città di pietra.
Le nostre sono tuttavia fibre docili all’apparenza ma indomite e tenaci, dense di clorofilla, gonfie di linfa vitale.
Ciascuna di noi sceglie un proprio posto, chi sotto al sole cocente, chi al riparo dai suoi raggi,
qualcuna ama la solitudine
ma per lo più non disdegniamo la compagnia e sovente ci mescoliamo con gusto
e se c’è qualcuna che fa la voce grossa, sappiamo tenerla a bada.
La nostra vita è breve? Oh sì.
Sappiamo che alla fine dell’estate passeranno gli sradicatori, bruceranno con le fiamme le nostre radici, inseguiranno racemi, foglie, infiorescenze e steli.
Forse nessuno si accorgerà della nostra sparizione,
forse non lasceremo alle spalle della nostalgia.
La città sarà più bianca e senza il guizzo dei nostri colori.
Ma ci ripresenteremo puntualmente l’anno a venire e così lo sforzo di estirparci sarà stato inutile
perché i nostri semi sono conficcati nelle fessure delle pietre e dei masègni,
penetrati negli anfratti delle murature e dei ponti
e come il caranto, che ha saldato la foresta di pali sott’acqua, noi abbiamo intrecciato una rete sotterranea che stringe e rende compatta la città.
Noi resistiamo.
Resistiamo come i cittadini di questa città e vorremmo condividerne i sogni. Offriamo a loro vite di risulta, frammenti di bellezza, stupori vegetali.
Dal basso, lì dove siamo, infondiamo a chi ci presta attenzione il coraggio e la speranza per credere a una Venezia non solo di pietra, di sguardi voraci e frettolosi ma un luogo per vivere, sostare,
crescere e forse divenire un giorno alberi.
Prima c’erano i campi.
Prima, oltre all’acqua, alle velme, c’erano l’erba e i campi e anche noi a far da padrone. Accanto alle vigne, al frumento e all’orzo.
Ci strappavano via. Ma non troppo. Perché sapevano che in tempo di carestia noi, alla bisogna, andavamo bene, crude o cotte in zuppe, frittate, pane.
E poi gli animali dovevano pur brucare.
Fino a quando il grano non giunse dalla Pannonia per nutrire la grande città, in giugno i campi erano gialli di spighe e nelle crepe della terra noi dimoravamo a nostro agio e riempivamo le mense più povere.
Prima del selciato c’eravamo noi
e abbiamo accompagnato lo scorrere dei secoli.
Non tutte le stesse.
Qualcuna si accomodò da fuori, come l’amaranto i cui semi si intrufolarono nelle navi di ritorno dal Nuovo Mondo, dove erano gradito cibo degli Aztechi e dei Maya.
Qualcuna altra venne portata dal mare, dal vento, attaccata agli scafi dei velieri, come succede ancora oggi agli uomini, e qui trovò posto o se lo conquistò.
L’accolse una babele di lingue, tante erano le terre da cui giunse la gente che approdò in laguna.
Prima c’eravamo noi e siamo sempre rimaste, anche se ridotte, sradicate, estirpate come gli abitanti di queste isole di pietra finemente lavorata.
Appena c’è distrazione cerchiamo di riconquistare terreno, quello che ci è stato tolto.
Nei margini della città ignorati dall’orda del turismo, prendiamo posto, occupiamo spazi, ci allarghiamo. Dove i passi non sono concitati, dove il frastuono dei trolley non si fa sentire,
ci ergiamo anche solitarie.
Vorremmo rivestire i campi come un tempo, ricordare l’anima verde della laguna di pietra.
Chiediamo alle mosche di fare il lavoro delle api, così rare in questo habitat.
Sussurriamo loro: sporcatevi le ali dei nostri semi, sbattetele dovunque, così da farci attecchire, in barba agli estirpatori.
Cominciamo in sordina, quando la primavera intiepidisce l’aria, spuntiamo dal nulla e gettiamo semi più in là.
Avanziamo dapprima in schiere minuscole e con percorsi immaginari,
poi, specie d’estate,
ci prende una smania irrefrenabile di ricoprire i masègni, di cancellare la traccia dell’uomo.
A darci man forte ci si mette sovente il trifoglio che non ha paura di nulla.
Altre volte, più guardinghe, mandiamo in perlustrazione la parietaria. Lei si accontenta di poco.
Si arrampica sui muri, striscia sulle grondaie ma in verità nasconde una grande ambizione,
vuole stupire e cerca un palcoscenico su cui esibirsi.
La paciosa portulaca preferisce invece stare più appartata, si distende sotto il sole più bruciante, si aggrappa ai gradini dei ponti e osserva benevola chi passa,
mentre il finocchio marino se lasciato indisturbato in quattro e quattr’otto riveste le rive lungo i canali,
le tappezza di allegre infiorescenze e
conversa amabilmente con le barche.
Siamo di tante sorte diverse e tutte per lo più appetitose, anche se gli umani ormai ci snobbano;
sappiamo di buono come il farinello che ha il gusto dello spinacio o come le tante famiglie di cicoria, tarassaco o di gramigna, dalle foglie sapide e amare appena un po’, quanto basta.
O possediamo proprietà medicinali come la lingua di vacca che spunta a fitti cespi.
Ci rivestiamo di spighe, steli, foglie lunghe o rotonde, pelose, seghettate o lisce,
azzardiamo fiori imprevisti, che nessuno nota ma noi li regaliamo con generosa benevolenza.
Cresciamo per dispetto, negli anfratti, tra le fessure dei mattoni, scaliamo i muri,
ci arrampichiamo sui ponti,
se necessario, ci allunghiamo in diagonale e attecchiamo di sbieco.
E benediciamo la pioggia quando giunge a dissetarci e a mondarci dalla polvere.
Qualcuna di noi sogna d’essere albero, di ergersi verticale e offrire ombra alla città assolata.
E così, se indisturbata, cresce a dismisura.
Durante il giorno accompagniamo i passi di chi entra in chiesa,
sorvegliamo dai ponti il passaggio delle barche
e spiamo la vita altrui dai gradini di pietra d’Istria.
La bellezza di questa città ci contagia e sogniamo di poter far parte del suo caleidoscopio di immagini:
suggeriamo un Mondrian nelle calli nascoste,
creiamo composizioni intonate alle sbrecciature del muro,
o, sfacciate, ci mettiamo in competizione con i ferri delle gondole.
Facciamo risaltare la lucentezza della pietra d’Istria, il rosso del mattone
e accentuiamo le striature e le rugosità di ogni pietra.
Nulla ci è estraneo dei segni della città, neppure quelli che appartengono al grido della modernità
e così ci accostiamo con sfida ai graffiti dei giovani
perché le nostre tinte vegetali sono tavolozze d’artista.
Ma soprattutto ci sforziamo di rimediare all’incuria e al disamore che regnano dovunque:
ripariamo i masègni maltrattati, scheggiati, spezzati dall’imperizia dei lavori,
chiudiamo e rappezziamo le loro buche,
nascondiamo i cavi passanti,
regaliamo grazia a tubi e condutture,
occultiamo rifiuti.
Le nostre sono vite clandestine e ignorate; noi siamo estranei gentili, presenze superflue, parenti poveri come ormai gli abitanti della città di pietra.
Le nostre sono tuttavia fibre docili all’apparenza ma indomite e tenaci, dense di clorofilla, gonfie di linfa vitale.
Ciascuna di noi sceglie un proprio posto, chi sotto al sole cocente, chi al riparo dai suoi raggi,
qualcuna ama la solitudine
ma per lo più non disdegniamo la compagnia e sovente ci mescoliamo con gusto
e se c’è qualcuna che fa la voce grossa, sappiamo tenerla a bada.
La nostra vita è breve? Oh sì.
Sappiamo che alla fine dell’estate passeranno gli sradicatori, bruceranno con le fiamme le nostre radici, inseguiranno racemi, foglie, infiorescenze e steli.
Forse nessuno si accorgerà della nostra sparizione,
forse non lasceremo alle spalle della nostalgia.
La città sarà più bianca e senza il guizzo dei nostri colori.
Ma ci ripresenteremo puntualmente l’anno a venire e così lo sforzo di estirparci sarà stato inutile
perché i nostri semi sono conficcati nelle fessure delle pietre e dei masègni,
penetrati negli anfratti delle murature e dei ponti
e come il caranto, che ha saldato la foresta di pali sott’acqua, noi abbiamo intrecciato una rete sotterranea che stringe e rende compatta la città.
Noi resistiamo.
Resistiamo come i cittadini di questa città e vorremmo condividerne i sogni. Offriamo a loro vite di risulta, frammenti di bellezza, stupori vegetali.
Dal basso, lì dove siamo, infondiamo a chi ci presta attenzione il coraggio e la speranza per credere a una Venezia non solo di pietra, di sguardi voraci e frettolosi ma un luogo per vivere, sostare,
crescere e forse divenire un giorno alberi.
Venice’s mad weeds: a small history of plant and human resistance